Report di Viaggio
Tosor Pass e Lago Kel Suu in Kirghizistan
Il report della nostra compagna di viaggio Samuela durante il tour esplorativo in Kirghizistan dell'estate 2018.
La biodiversità non si addice alle anime poetesse. Penso mentre la steppa che corre da ore fuori dal finestrino mi scava un deserto dentro l’anima. Le valli verdi e fiorite dei primi giorni mi sembrano far parte di una vita precedente e lontanissima.
Poi guardo il cielo e ripenso a quella volta in treno quando mia sorella distrattamente mi dice ma ci hai mai pensato che le scie degli aerei sono stelle cadenti, ma di giorno. Un genio.
Ma mettiamo un po’ d’ordine. Sarebbe restituire un’immagine falsa del Kirghizistan far pensare che sia privo di biodiversità. Sarebbe nutrire una reputazione che gli viene dall’appartenenza all’Asia Centrale, Asia degli stan (sempre che ce l’abbia, una reputazione, perché in realtà molta gente non sa nemmeno che esista). I paesi in stan ci rimandano un’eco di steppa che non vale per tutti. Il vicino Kazakhstan é steppa indiscussa, Uzbekistan e Tajikistan non sono molto verdi e biodiversificati, neanche loro. Pensare stan vuol dire pensare al mare di Aral, che di mare non ha quasi più niente se non il fondale.
Quando dicevo steppa, intedevo che la vegetazione non ti arriva nemmeno alle caviglie, per capirci. E quando guardi fuori vedi solo le curve sinuose (che belle) delle colline, delle montagne e valli che le uniscono, a volte spezzate dal brillare dell’acqua cristallina dei fiumi che le attraversano. Verde, rosa, viola, rosso, blu, ghiaccio. No alberi, no cespugli, nothing. Ma in Kirghizstan ci sono anche fiori e alberi, che dico, intere foreste. Senza parlare dei cavalli e delle aquile, assolutamente onnipresenti.
Quella che vi racconto qui è solo una parte del nostro viaggio Verticale. Alcuni, e in ogni caso forse tutti i miei sette compagni di viaggio, vi diranno che questa era la parte migliore, quella con i paesaggi più spettacolari. E forse non avranno torto. Chi lo sa, c’è sempre quella parte di soggettività da mettere in conto, e quanto a me, ammetto che le migliaia di immagini del viaggio che mi restano addosso si mescolano ormai tutte nello stesso fiume confuso.
Vi racconto quelle ore passate fuori dal finestrino, mentre la macchina rosica chilometri, ma pochi per volta perché cammina su suoli ostili fatti di terra e di roccia. L’asfalto, per ora, dimenticatevelo. Il tutto con un duetto di autisti perfetto e complementare : Alex parla tantissimo e ascolta meno (ma bene), Nuric parla poco e chissà quanto ascolta, perchè chissà quanto capisce.
Quei 200 e qualche chilometri che abbiamo percorso in una botta sola – pazzia, non fatelo, fateli in due giorni, che un giorno solo non è abbastanza per incassare tutta quella meraviglia, che si accumula in una memoria insufficiente e quindi finisce che sgorga e quasi si spreca. Anche il Moma di New York, bisognerebbe farlo in due giorni. Sto parlando della saturazione di immagini, e sto anche andando un po’ fuori tema. Comunque fateli in due giorni e fermatevi dove più vi piace. Mi spiego. Il tragitto che va da Tosor a Naryn, se si decide di attraversare il Tosor Pass, è un susseguirsi di paesaggi sublimi e molto diversi l’uno dall’altro. Valli incantate. Praterie sconfinate. Montagne multicolore e multiforme, quelle di cui parlavo prima. Creste verdi coperte da conifere perfette come coni gelato rovesciati. Gole rosse scavate da fiumi intensi più o meno agitati. Cielo invaso da nomadi nuvole bianche, che quando senti quel pezzo di Moby che ascoltavi al liceo e stormi di uccelli si alzano in volo ti senti salire le lacrime su dal petto.
Oppure, fateli in tutto il tempo che ci vuole per farlo in bici, o a piedi – tutto dipende dal tempo che avete e dalla dose di follia che vi scorre nelle vene.
Il sole picchia ad agosto, vi sfinirà, poi la sera vi mancherà, e via dicendo.
Al momento in cui attraversiamo il Tosor Pass (4.000 metri), gli smartphone di Sara e Ambra si muovono freneticamente per la macchina alla ricerca di video. La cosa mi sta irritando tantissimo, mi pare eterna, le braccia mi passano davanti ripetutamente e siccome la macchina sobbalza ho costantemente paura di prendermi uno schiaffo in faccia. Fuori ci sono rocce, ghiaccio, ricordi freschi di frane su cui la macchina si muove a stento. Ma cosa filmano ? Pazienza, penso.
Facciamo una pausa al passo, scendiamo a sgranchirci le gambe. Ma ci si puo’ emozionare per un fiore ? Assolutamente si, mi direbbe Sara, soprattutto quando è giallo, solo, in mezzo a uno specchio d’acqua, anch’esso solo in un mondo fatto di pietre e di ghiaccio ingrigito dal tempo che sembra non debba sciogliersi mai più.
Il sole illumina come un sole di mezzogiorno a quota 4.000, il cielo è perfettamente azzurro, le nuvole rievocano il bianco dei ghiacciai e quello dei nostri furgoni. Chiudete gli occhi un istante e guardate la luce. Ghiaccio, cielo, mezzogiorno, 4.000 metri. Immagini talmente nitide che è quasi impossibilie amarle. E io e Sara sempre, rigorosamente senza occhiali da sole. Già, perché con gli occhiali poi non sentiamo più niente.
Che poi tra l’altro dovrei smetterla di scrivere e dirvi solo andateci, subito, il più presto possibile.
Insomma. Una tappa a Naryn e molte altre curve dopo, Alex dice alle nostre faccette esauste che siamo quasi arrivati. La notizia ci toglie dal torpore in cui siamo tutti caduti, dai pensieri un po’ stanchi e polverosi in cui stiamo errando, e ci riporta fuori dal finestrino, attenti alla parvenza di quello che verrà. E ricominciano wowww da ogni fronte. Siamo allo Yurt Camp Kel Suu Lake, a 3.300 metri circa. Dio è stato particolarmente attento all’estetica dei luoghi. Paesaggista esperto, ha posato creste rocciose a forma di dragoni addormentati su nude steppose colline. Il campo di Yurte si stende sulla prateria (vi giuro che è infinita), il nostro sguardo un po’ avido e un po’ perso è contenuto solo dalle catene montuose che circondano il palcoscenico. Il cielo è apocalittico, l’arancione dei vestiti di Ambra e Atti spicca in mezzo a colori più aridi e perfetti. Sara è verde e azzurra come la caravana di fronte di noi. Matrimoni cromatici. Gli altri non me lo ricordo, punti colorati che vagabondano nell’immensità. Io nera come sempre, immagino. Siamo già storditi dallo spettacolo, e ancora non abbiamo visto niente.
Da qualche parte, non lontano, ci aspetta il Kel Suu, magico lago dai tre volti, uno per ogni stagione (beh fate finta che le stagioni siano tre, ai fini di questo testo) : acqua, neve, o luna. Noi abbiamo camminato sulla luna, lasciando impronte su circa cinque chilometri di fondale di lago circondati da falesie maestose.
Per arrivarci dal campo, il trekking é abbastanza lungo ma facile, quasi non c’é dislivello. Si attraversano valli (mitiche valli) tagliate da fiumi, e qualche collina, ammirando i dragoni e i ghiacciai dormienti. Noi quindi abbiamo fatto diversamente. Abbiamo fatto un anello, per fare più chilometri, più salite, più discese (ve l’avevo detto che sono partita con sette pazzi ?). La sera quando mettiamo i piedi in tenda abbiamo nelle gambe 27 chilometri. Quanto è buona quella birra fredda che apri quando sei arrivato. E anche quella zuppa calda che ti servono nella yurta comune vicino alla stufa bollente, che se te l’avesse fatta tua madre avresti fatto una smorfia e invece li’ ti fa risorgere.
Lasciamo il campo alle 6 del mattino. Mettiamo il naso fuori dalla tenda alle 5, congelati come ogni cosa che ci circonda.
Il mondo è patinato da candida gelida brina.
Smontiamo le tende guardando il sole come per pregarlo di fare in fretta, lo vediamo sorgere, alzarsi, illuminare ogni superficie, insistere fino a scongelare tutto e scongelarci tutti. Il cielo è di nuovo azzurro e la steppa è dorata. Ripartiamo verso nuove vette.
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